Lapide posta sulla facciata dell'abitazione in via Citanna a Zammarò
Nato a Zammarò il 21 novembre 1910. Nel 1936 a Torino fu consacrato alla vita sacerdotale, morì nel 1979.
Dal bollettino salesiano del 1°luglio 1980:
Salesiano di squisita sensibilità e cultura, lasciò gli
studi biblici prediletti per svolgere il suo servizio ai giovani e alla Congregazione attraverso le vie insolite dell'organizzazione e delle relazioni pubbliche. Il suo nome è legato alla resistenza partigiana, agli sciuscià di Roma, e al tragico
episodio delle Fosse Ardeatine.
Si sono stato io a scoprire i morti sotterrati nelle Fosse Ardeatine ». Lo disse per l'ultima volta in forma ufficiale, sotto giuramento, nel 1975 deponendo al processo per il film "Rappresaglia". E tante altre
vicende di questo singolare sacerdote sono state quasi dimenticate, ignorate perfino da chi negli anni recenti gli era vissuto accanto. A un anno quasi dalla morte conviene ricordarlo.
Il "Gruppo don Valentini". L'uomo che sembrava destinato a una tranquilla
carriera di studi e di insegnamento tra i libri di Sacra Scrittura che prediligeva, si vide dirottare dagli avvenimenti per una strada del tutto diversa e imprevista. Nel 1943 don Valentini si trovava a Roma insegnante nella casa di formazione salesiana "San
Callisto". La sua comunità aveva in custodia anche le catacombe omonime; le Fosse Ardeatine distavano poche centinaia di metri. Un lungo articolo di Diego Minuti, apparso sulla Gazzetta del Sud 1' 11.1.1980, racconta i fatti.
Don Valentini aderì
con una presenza tipicamente sacerdotale - quella che vede le sofferenze e le ingiustizie, e cerca la misericordia e la salvezza delle vittime - ai movimenti clandestini, precisamente a quelli organizzati da Umberto Gazzoni. Divenne presto animatore di un
gruppo, che da lui prese nome: « Gruppo don Valentini». Operavano nella zona di San Callisto, dove le truppe d'occupazione tedesche tenevano prigionieri 250 soldati italiani, a favore di questi e di tanti altri (soldati inglesi, italiani sbandati,
coscritti alla macchia, israeliti). Il gruppo lavorò falsificando documenti di soggiorno, alterando carte annonarie, e facendo passare per religiosi in transito per Roma giovani in cerca di scampo. Sessanta soldati fuggiti dalla Cecchignola furono nascosti
nell'oratorio, camion carichi di esplosivi furono fatti sparire, nella stazione Tiburtina vagoni carichi di munizioni vennero fatti saltare (non avrebbero più fatto male a nessuno).
Il giorno dopo via Rasella. Il 23 marzo 1944 i partigiani avevano
seminato la morte nella colonna di Altoatesini del battaglione Bozen che stava passando per via Rasella; l'indomani fin dal primo pomeriggio don Valentini intuisce che i tedeschi stanno preparando qualcosa. Staffette, autoblindo, soldati vengono scaglionati
lungo la via Ardeatina. Poi vede sopraggiungere auto piene di ufficiali e sottufficiali, tre cellulari, un'autoambulanza, autocarri... Don Valentini si porta davanti all'ingresso delle cave di tufo di pozzolana. Alle 17 dagli automezzi sono fatti scendere
decine e decine di uomini e donne (che si saprà strappati da Regina Coeli e altre carceri, molti sospetti di attività partigiana). Poi vengono avviati nelle cave, spinti brutalmente dentro. Gli ufficiali fanno stendere davanti all'ingresso del
filo elettrico innestato a una batteria. Nessuno può fuggire.
Alle 20 i motori degli automezzi fermi sul piazzale vengono accesi tutti insieme. Il fragore è tremendo, ma non riesce a coprire il crepitio di una lunga raffica di mitragliatrice.
Poi le raffiche si susseguono a pochi minuti di distanza, e don Valentini intuisce il dramma che si sta consumando nelle viscere della collina. I motori degli automezzi a un tratto si fermano, si ode ancora qualche singolo sparo, forse "colpi di grazia". Poi
i soldati escono di corsa dalle cave, e si ode un boato. Cariche di dinamite esplodono, fanno franare il terreno, ma non sono abbastanza potenti per chiudere l'ingresso dei cunicoli. Don Valentini rimane sul posto tutta la notte. L'indomani i soldati fanno
brillare altre cariche di dinamite, mentre in città cominciano a circolare le voci di una strage compiuta dai tedeschi non si sa dove.
Il 27 marzo don Valentini con un altro salesiano, don Nicola Cammarota, entra nelle Fosse. L'aria è
irrespirabile, non si può proseguire. Ma è percepibile l'acre odore di corpi in decomposizione, e i due tornano poco dopo con altri due salesiani, e con naso e bocca protetti da garze. Ecco i primi corpi, ammassati l'uno sull'altro, delle 320
e più vittime delle Fosse Ardeatine. Il primo aprile tre autocarri militari tornano alle cave, ne scendono soldati e operai, collocano una nuova serie di mine più potenti, e questa volta i blocchi di tufo si sbriciolano murando l'ingresso.
Due giorni prima, don Valentini aveva portato la spaventosa notizia a mons. Montini, futuro Paolo VI, allora Prosegretario di Stato.
Chiedeva come Don Bosco. Passato il ciclone della guerra, Roma brulicava di ragazzi sbandati, i famosi sciuscià,
e qualcuno diceva in giro: «Qui ci vorrebbe Don Bosco». C'erano i suoi figli, e cominciarono a raccogliere quei ragazzi. Don Valentini, che grazie al suo passato di partigiano era in buoni rapporti con le truppe di liberazione, ottenne dalle autorità
gli aiuti necessari per sfamarli e vestirli, per assicurare loro scuola e preparazione professionale. Così tanti sciuscià poterono diventare "ragazzi di Don Bosco".
Ormai don Valentini aveva messo da parte i libri, il nuovo lavoro lo assorbiva
per intero. Divenne l'uomo di pubbliche relazioni che tanti hanno conosciuto, andava a bussare alle porte di chi poteva aiutare. Perché intanto, oltre agli sciuscià, si era assunto un altro compito, quello delle colonie estive. Prima una, poi
quelle dell'Ispettoria romana, poi numerose altre sparse per l'Italia. Difficile dire quanti ragazzi dissestati o semplicemente sfortunati ricevettero una mano a crescere. E per mandare avanti le colonie, don Valentini creò l'Osag, ossia "Opera salesiana
di assistenza giovanile".
E' la sua prima sigla, e tante altre ne seguiranno, realistiche, rispondenti a bisogni veri della gioventù. Come i Centri di addestramento (ora di formazione) professionale, le Polisportive, i Cinecircoli, il Turismo
giovanile. E il Cnos (Centro Nazionale Opere Salesiane), l'ente giuridico che tutte le raccoglie e le rappresenta davanti alla società civile.
Una simpatica manifestazione d'oratorio, la Scaletta, a Padova è nata e cresciuta, anzi è
cresciuta un po' troppo, e bisogna darle dimensioni nazionali: la affidano a don Valentini, che convoca gruppi di giovani anche dall'estero, anche dell'Asia, e li fa cantare e recitare davanti alle telecamere e sui teleschermi della Rete 1.
L'uomo di
pubbliche relazioni era ben accolto da piccoli e grandi, da presidenti e ministri; sull'esempio di Don Bosco che non aveva esitato ad avvicinare i Cavour i Crispi, anch'egli andava, chiedeva con umiltà, con coraggio, qualche volta con fermezza. Perché
sapeva di trattare una causa non sua. Il suo lavoro si svolgeva nell'ombra, tanto spesso nel chiuso dell'ufficio, tra scartoffie, pratiche, carta da bollo. Un lavoro per nulla salesiano? Era salesianissimo perché tutto a servizio della gioventù.
Don Valentini ha lasciato un breve testamento spirituale che comincia con «Ringrazio Dio di avermi creato, fatto cristiano, sacerdote e salesiano», e chiude dicendo: «Sono felice di morire nella Chiesa cattolica, fedele al Papa e a Don
Bosco».